In ricordo di
Don Giuseppe Berti
Fidei donum in Thailandia nella missione del Triveneto
Giuseppe era anzitutto un uomo vero. Dotato di una grande umanità e di una forte determinazione, sapeva costruire relazioni belle e positive, grazie alle doti naturali di spontaneità ed cordialità, che lo hanno sempre contraddistinto.Sapeva essere accogliente e disponibile, ed allo stesso tempo sempre autentico e schietto nel suo rapportarsi agli altri. Fin dagli anni del suo cammino in seminario, iniziato nel 1990, si è fatto conoscere come un uomo vero, sincero, deciso, ma anche gioviale, amante della compagnia e dotato di una buona dose di ironia. Le sue battute spontanee lo hanno sempre contraddistinto, anche nel tempo della malattia.
Umile e sincero, non si è mai considerato superiore agli altri, ma sapeva sempre svolgere il suo dovere con impegno, con caparbietà, con forza d’animo. Abituato al lavoro serio e responsabile, conoscendo bene il valore della fatica e le preoccupazioni delle famiglie e dei lavoratori, ha saputo dedicarsi sempre con grande generosità e determinazione al suo ministero, riuscendo ad intercettare le problematiche della gente comune, accostandosi a molti come un fratello che ascolta, comprende, incoraggia.
In secondo luogo vogliamo ricordarlo come un testimone di Dio e dei valori importanti della vita; un testimone coraggioso, uno che non si ferma mai, capace di guardare sempre oltre l’ostacolo. Ha affrontato gli impegni vari e le difficoltà incontrate, da lavoratore prima, poi da seminarista, quindi in parrocchia a Tomba dal 1997 al 2002 e in missione, dal 2002 al 2016, sempre con lo sguardo rivolto a quell’Assoluto che era il suo motivo ispiratore. La sua fede sincera, semplice, ma granitica lo ha sempre sostenuto e lo ha reso testimone di speranza per molti.
Quando la sua ispirazione missionaria è stata indirizzata dai superiori verso la missione triveneta in Thailandia, non si è smarrito, ma ha iniziato il lungo e paziente impegno di apprendere la lingua e la cultura thai, all’età di 44 anni. Tanti sono i ragazzi di Borgo Roma, ormai diventati grandi, che ricordano la determinazione ed il coraggio del proprio curato. Tanti in missione ricordano la sua costante dedizione e la sua capacità di testimoniare sempre quel Dio che aveva nel cuore e che gli dava forza.
Infine ricordiamo Giuseppe come un prete convinto e fedele. Ha amato il suo sacerdozio, lasciando la casa di Castion veronese e il lavoro, per abbracciare questa vocazione e l’ha custodita nei momenti di difficoltà. Ha voluto essere sempre pastore “con l’odore delle pecore”, senza mai temere di rischiare nell’immergersi nella controversa realtà umana. Ha percorso i quartieri della periferia di Verona e i villaggi sperduti della Diocesi di Chan-Mai in Thailandia sempre con la stessa passione e con il desiderio di essere prete secondo il cuore di Cristo.
Ha vissuto il suo ultimo tratto di cammino terreno nella Casa del Clero di Negrar, dopo il tremendo incidente della Domenica delle Palme del 2016, mentre era in viaggio in moto, per andare a incontrare le sue comunità. In questo tempo, se pur segnato dalla fragilità, ha dato prova di essere un grande uomo di fede, grazie anche al costante sostegno ed alla amorevole assistenza dei suoi famigliari, presenti accanto a lui sempre, anche nell’ultimo momento, quando hanno pregato insieme, per l’ultima volta, il Magnificat.
Era la sera dell’11 dicembre, e Giuseppe è partito verso il Signore; era lo stesso giorno in cui, quindici anni prima, era partito verso la Thailandia.
“Chiediamo a Dio di donarci la grazia di essere fedeli al nostro sacerdozio e di viverlo sempre con impegno”. Questo il suo testamento spirituale, consegnato a noi, compagni di ordinazione, il 17 maggio di quest’anno, nella cappella di Casa Clero al termine della Messa per il XX anniversario del nostro sacerdozio.
Grazie Giuseppe. Buon viaggio verso Dio.
LA DIGNITÀ DELLA CROCE
Vi racconto una storia…. C’è un ragazzo che, dopo anni di lavoro, si sente chiamato a vivere l’esperienza alta del dono della propria vita. Entra, dopo un cammino di discernimento in seminario e, compiuto il percorso, riceve il Sacramento dell’Ordine. Non propriamente pago, decide che la massima espressione del dono, è vivere un’esperienza di missione. Il don parte per un paese lontano. Tra un villaggio e l’altro, compie la sua missione evangelica per ben 14 anni. Un giorno, proprio un giorno di Quaresima, diventa un giorno di Passione. Aveva percorso tante volte quella strada con la sua motoretta, portando l’annuncio gioioso della Croce di Cristo. Un camion gli taglia la strada, lui perde il controllo della motoretta e va a sbattere su un grosso albero. Il legno di quell’albero si trasforma in legno della sua croce: condannato ad una disabilità permanete. Riceve le cure mediche necessarie e il conforto e le cure affettuose della gente che lui ha amato e servito per anni. Necessariamente fa rientro in Italia e abita la stanza di una struttura sanitaria. Passa i giorni ricordando il popolo che ha amato e quasi sempre si esprime nell’idioma imparato, fantasticando di essere ancora lì, con la sua motoretta che scorrazza da un villaggio all’altro, vuoi per un battesimo, un matrimonio, una celebrazione Eucaristica o semplicemente per portare sorrisi, abbracci e segni di speranza. Tante volte racconta alla propria mamma e ai suoi familiari, riuniti attorno a lui, di come cercasse di tradurre in quelle periferie il senso della Croce del Signore e i suoi significati teologici. Gesù Cristo si è lasciato inchiodare sulla Croce per amore, terminando così il suo cammino con l’espressione più alta di obbedienza al Padre per attuarne il progetto salvifico. Con la Risurrezione trasforma l’infamia della Croce in trionfo della Gloria. Il nostro don riceve la Croce della sofferenza e del dolore, dell’incomprensione mentale e della difficoltà motoria. Tante volte avrà portato l’annuncio della Gloria e ora è chiesto a lui di esserne testimone. La Croce è segno d’amore, è segno di vittoria sul male, è stile di vita, è Legno Eucaristico, è sostegno di Speranza, è redenzione, è appartenenza ecclesiale.Ai piedi del letto, come Maria ai piedi della Croce di Gesù, un giorno si presenta il vescovo della Chiesa sorella che lui, il nostro don, ha servito con amore. Sua eccellenza ha affrontato un lungo viaggio proprio per incontrare il don, doveroso riconoscimento. Ho visto l’amore sprigionarsi, l’animo paterno associarsi al dolore, le mani che si intrecciavano e si accarezzavano. Il vescovo, seduto accanto al dolore, partecipa con tutto se stesso, esprime così la sua gratitudine verso il dono che il don è stato per il suo popolo. Nella stanza, l’amore si taglia a fette, tra loro c’è comprensione, dialogo, accoglienza, gratitudine, stupore. È l’eloquenza della scena della lavanda dei piedi, l’espressione più alta dello stare di Maria ai piedi della Croce. Il don ha dato tutto se stesso per la Verità e la giusta causa, diventato ora autentica parabola vivente. Al momento dei saluti, arriva l’incredibile, il vescovo lo guarda intensamente, lo abbraccia con gli occhi, si toglie la Croce pettorale e la mette al collo del don: “ questa è Tua, la porti con più dignità”.Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa. (Col 1,24).Grazie vescovo, venuto da molto lontano, dalle periferie del mondo, per aver manifestato la sua più alta paternità attraverso l’abbraccio, segno più eloquente che un padre può donare a un figlio.
Grazie soprattutto a te, don, per l’esempio concreto di come la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza umana, come risposta all’amore di Dio.
Giuseppe Cacciotto